venerdì 20 gennaio 2017

Dalle ovvietà di Davos a Trump alla Casa Bianca

















Non è tempo di vedovanze

di Alessandro Gilioli

Ho in casa, sotto vetro, la prima pagina originale del Nyt che vedete qui sopra. Me la procurai con mia moglie, che non era ancora tale, la mattina dopo l'elezione e la festa a Times Square, nella sede stessa del giornale, dopo una lunga coda e dopo aver inutilmente battuto gli edicolanti di mezza Manhattan - che mi ridevano in faccia, il quotidiano era esaurito dalle prime ore dell'alba.

Questo per dire quanto sono stato "yes we can" anch'io. E non solo quel mattino in cui vedevo i ragazzini scendere da Harlem in bicicletta ridendo e urlando "Obama!" come se avessero vinto loro, ciascuno di loro.

Poi la storia ci dirà quanto e come ha fatto, e quanto non ha fatto. Dalle disguagualianze alle guerre, dall'economia alla salute, dall'istruzione all'energia. Personalmente, a caldo, penso che abbia fatto molto - forse tutto il possibile - ma anche molto meno delle (enormi) aspettative. E nulla come le aspettative deluse creano rabbia, reazione, rinculo.

Infatti poi è arrivato Trump.

Sono meno ottimista di Slavoj Žižek sulle possibilità che Donald Trump mantenga le sue promesse di «ingenti trasferimenti sociali a sostenere seriamente i lavoratori». Non mi sembra che le persone di cui si è circondato siano diverse da quelle che hanno implementato l'egemonia culturale ed economica liberista da Reagan in poi. Anzi, mi sembra che escano tutte o quasi da quel'ideologia lì.

Ma convengo con il filosofo sloveno sul fatto che «Trump è un sintomo di Hillary Clinton, nel senso che l’incapacità del partito democratico di svoltare a sinistra ha creato lo spazio occupato da Trump».

È un discorso, questo, che del resto non vale solo per gli Stati Uniti: la crisi di rappresentanza della sinistra storica - cioè la sua rinuncia/incapacità a rappresentare i ceti più deboli - ha creato vuoti simili anche altrove. Lo sappiamo bene, dalla Francia all'Italia.

Ma non vorrei nemmeno che la questione venisse intesa troppo all'interno di geometrie politiche lineari, sempliciste, ortogonali: non è questione di essere più a sinistra, ma di volere e sapere rappresentare i ceti deboli, i nuovi poveri, i forgotten del liberismo.

A questo punto, quindi, non è tempo di vedovanze. Con tutto l'affetto per Obama, non serve a niente rimpiangerlo.

Serve invece avere bene chiaro che il catastrofico collasso del modello "fukuyamaista" (reaganista, thatcheriano, liberista etc: chiamatelo come vi pare) è talmente conclamato che in questi giorni anche a Davos - la sua culla - non s'è parlato d'altro. Perfino Lagarde ha detto che «le vittorie populiste segnalano la necessità di una maggiore redistribuzione dei redditi»: un po' come quando la Chiesa cattolica ammise che aveva ragione Galileo.

Serve avere altrettanto chiaro che allo stesso modo è collassato l'atteggiamento con cui la sinistra si è approcciata, in questi trent'anni, a quel modello liberista: sposandolo come "inevitabile" e al massimo attenuandolo, attutendolo, ammorbidendolo un po'. Blair, Clinton, Hollande, il centrosinistra nostrano. Un atteggiamento che sta portando i socialisti alla "pasokizzazione" in quasi tutta Europa. A proposito, perfino il nostro ministro Padoan a Davos ha dichiarato, testuale, che «bisogna completamente rovesciare le politiche perché ora si stanno dando i giusti argomenti per convincere che il populismo ha ragione». Completamente rovesciare, roba che se la dicevo io qui era da estremisti, era "sinistra radicale".

Serve avere infine ancora più chiaro che la questione qui non è più difendere quel modello, o sperare di ammorbidirlo, ma soltanto ipotizzare e costruire un'uscita diversa dal ripiegamento arroccato e impaurito brandito dai vari Trump, Le Pen, Salvini, Orbán, Kaczyński etc etc.

Un modello, un'agenda e un'uscita che sia all'opposto di quella tardonazionalista, postfascista, reazionaria, xenofoba, autocratica, poujadista, passatista e di rigurgito che ha partorito il nuovo presidente americano.

Questo siamo chiamati a pensare e a costruire, oggi, 20 gennaio 2017, mentre Donald Trump entra alla Casa Bianca.

DAL'ESPRESSO BLOG - PIOVONO RANE

A Davos oltre intascare profumatissimi stipendi,e dichiarare ormai delle ovvietà,siamo nel 2017 e le macerie sociali non sono manco più fumanti,inizino con velocità supersonica a invertire le politiche che hanno contraddistinto quasi un trentennio.

Per ciò che riguarda gli States,se lo sono scelti,ora vivano full immersion con costui per quattro lunghi anni,il dato certo è che non mancheranno discussioni e polemiche,le contestazioni sono già iniziate dalla sua vittoria.

Chissà? Un socialista-comunistone come Sanders,potrebbe diventare la grande occasione mancata,ma da quelle parti uno così a maggioranza,fa più paura di un inguardabile come l'attuale neo residente della Casa Bianca.

I.S.

iserentha@yahoo.it

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