lunedì 31 ottobre 2016

Dalle aspettative di benessere del secolo scorso,alla sopravvivenza del nuovo secolo


















La speranza che abbia ragione Loach

di Alessandro Gilioli

Difficile vedere in "Io, Daniel Blake" tracce di fiducia e di speranza. Tanto meno di "militanza politica": il protagonista non ha uno straccio di sindacato o di partito a cui rivolgersi, in cui identificarsi, nel quale trovare strumenti di lotta collettiva.

Gli spettatori - i più sensibili, almeno - escono quindi dal cinema con gli occhi lucidi. O comunque con sentimenti assai più cupi di quelli che accompagnavano il finale di "Il pane e le rose".

Invece Daniel Blake - il film e lui stesso, il protagonista - mostra un tesoro inestimabile e di cui spesso ciascuno di noi dubita: la forza straordinaria delle relazioni umane, dell'empatia, della solidarietà.

Non sto scherzando. Tutto il film è disseminato di questo messaggio.

C'è prima di tutto il rapporto di limpida amicizia tra il disoccupato in età Daniel e la madre single Katie: un'amicizia che è anche mutualistica, perché prima lui aiuta lei poi sarà lei ad aiutare lui.

C'è la complicità di Daniel con il giovane vicino di origine africana, di nuovo solidale e a tratti mutualistica: Daniel lo aiuta nel business delle scarpe, il ragazzo ricambierà dandogli una mano coi moduli on line - e gli offrirà una disponibilità totale vedendolo vendersi i mobili.

Ci sono inoltre tanti gesti di generosità gratuiti: il direttore del supermercato che grazia Katie quando lei è beccata a rubare, le donne del banco alimentare che si fanno in quattro per la ragazza che sta male, l'ex collega che passa a Daniel un legno da lavorare, la funzionaria dell'ufficio disoccupazione che lo aiuta di nascosto.

E ci sono anche gli applausi dei passanti - superficiali, ma autentici - quando Blake inscena la sua protesta davanti all'ufficio che gli nega l'assegno a cui ha diritto.

C'è insomma - tutto sommato, e al netto dei pochi servi dell'ingranaggio - un'umanità sana.

Ed è questa la speranza di Ken Loach, quella che cerca di trasmetterci. L'ultima barriera di civiltà e di futuro quando è già finito tutto il resto: il lavoro, il welfare, il partito, il sindacato, la sinistra, la lotta.

Non so se Ken Loach ha ragione: o se, al contrario, il tratto caratterizzante di questo difficile passaggio storico sia proprio il contrario. Cioè la disgregazione egoistica. Il tutti contro tutti. Gli odiatori di ogni categoria diversa dalla propria, giovani contro vecchi, precari contro operai, indigeni contro immigrati e così via all'infinito.

Non sono affatto sicuro che Loach abbia ragione, ad esempio, quando vedo i disumanizzati di Goro, i seguaci incazzati di Trump, i livorosi lettori di Libero. Ma non perché questi sono "di destra": semplicemente, perché non vedono l'uscita dalla propria disperazione nella solidarietà mutualistica con altre disperazioni, bensì nel ridurre l'altro in una condizione di disperazione peggiore della propria.

L'opposto dei personaggi di Loach, insomma.

Ecco perché non sono affatto sicuro che abbia ragione, l'ottimista Loach.

Non lo sono, ma lo spero tantissimo - e non smetterò di sperarlo.

DALL'ESPRESSO BLOG - PIOVONO RANE

Sono dell'idea che la visione di Loach nel film sia difficile da vedere nella società d'oggi,perché l'impoverimento è una realtà ancora troppo recente,siamo ancora chi più,chi meno in un limbo dove il benessere è ancora uno status in cui ci si illude di poterlo raggiungere,con una netta frattura tra chi è nato negli anni 50-70 e chi è nato tra la fine del secolo e quello nuovo,la differenza pare quasi abissale come tenore di vita nel passato,nel presente e soprattutto in futuro.

Qualche decennio e la socialità muterà profondamente,un po' come nel dopoguerra,quando quasi tutti avevano le pezze al culo,e la solidarietà,l'umiltà furono qualità molto presenti.

Le profonde differenze saranno le aspettative,nel tempo che fu s'intravedeva la speranza di benessere,quelle che vivranno le nuove generazioni sarà la solidarietà della sopravvivenza.

I.S.

iserentha@yahoo.it

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