domenica 20 ottobre 2013

Enzo Biagi e l'intervista con Indro Montanelli




Montanelli La dannazione di parlar chiaro

CONDANNATO A MORTE DAI NAZIFASCISTI, PASSÒ QUATTRO MESI IN CARCERE A MILANO LÌ C’ERA MIKE BONGIORNO, ARRESTATO PERCHÉ AMERICANO: “SIMPATICO, AIUTAVA TUTTI” SULLA POLITICA ITALIANA, POCHI PUNTI FERMI: “HO MOLTO AMMIRATO DE GASPERI. I MIEI AMORI INVECE SONO DUE: IL VECCHIO PIETRO NENNI, UN GALANTUOMO, E UGO LA MALFA” MA LA PASSIONE DELLA VITA È IL GIORNALISMO: “LAVOREREI PURE GRATIS, PER ME È TUTTO”

di Enzo Biagi

Indro, non ti faccio un complimento se ti dico che per me tu sei il più bravo di tutti. Giulio De Benedetti, mio direttore quando scrivevo per “La Stampa”, mi ha insegnato che il giornale conta più di tutto; tu, invece, che bisogna essere umili, cioè il giornalista deve mettercela tutta perché i lettori, i telespettatori, capiscano. Sono in tanti, invece, quelli che usano il giornale per imporsi. Come sei arrivato a questa verità?

Vi sono arrivato prima per istinto poi per ragionamento e cultura. Per istinto, qui mi ha aiutato il mio sangue toscano, noi abbiamo tanti difetti ma questa buona qualità: cercare di parlare chiaro. Per ragionamento e cultura perché i miei studi storici mi hanno fatto capire che l’Italia è quello che è, ha i difetti che ha, per il vecchio tradimento perpetrato dalla cultura nei suoi confronti, sempre chiusa in se stessa e con un solo riferimento: un signore, espressione del potere o politico o economico. Il letterato italiano non ha mai scritto per il pubblico. Chi scrive per il pubblico viene disprezzato. Questo è il segno della fellonìa più infame che si possa commettere.

Quando hai cominciato a scrivere?

Il primo articolo l’ho pubblicato nel 1925 a Rieti quando ero al liceo, il giornaletto si chiamava La Frusta.

Indro, alcuni tuoi compagni di liceo hanno detto che a scuola eri una disgrazia.

Non è che fossi proprio un lazzarone. Rispetto ai miei compagni già allora sapevo che avrei fatto il giornalista e lo scrittore, perciò tutte le mie energie erano concentrate su quelle due o tre materie che mi avrebbero interessato anche dopo.

Ho visto una foto di una tua gita scolastica, ti ricordi chi era quel professore con la barba che
vi accompagnava?

Si chiamava Olinto Marella, poi diventò padre Marella, era l’insegnante di filosofia

Che ricordo hai di lui?

Marella non c’entrava nulla con la scuola, la cultura gli importava poco, lui mirava più alla coscienza, alla moralità, in senso alto non caporalesco, dei suoi giovani allievi. Aveva la grazia, era già un santo allora. Ho continuato a incontrarlo anche quando si trasferì a Bologna ed era diventato padre Marella. Era una compagnia beatificante.

Sotto il fascismo hai passato dei guai.

Non perché ero antifascista, ma perché volevo fare il mio mestiere ed era impossibile fare il giornalista: tutto quello che si raccontava doveva essere in funzione della propaganda. Io non riuscivo a farla e nel 1937 uscii dal partito, approfittai che mi avevano sospeso per non prendere più la tessera. Il nostro amore per la libertà è nato dentro al fascismo e non fuori.

Cosa pensi di Mussolini?

Mussolini fu un grossissimo politico, di grande fiuto, di un tempismo formidabile. Non c’è dubbio che il potere assoluto lo guastò, era diventato una specie di marionetta, era la caricatura di se stesso, aveva perso il senso della realtà. All’inizio capì una cosa fondamentale:per piacere agli italiani doveva dare a ciascuno
una piccola fetta di potere con diritto di abusarne.

Hai fatto l’ufficiale in un battaglione eritreo,come andò?

Nel 1935 ero già giornalista e lavoravo all’estero per gli americani alla United Express, chiesi alla mia agenzia di mandarmi come corrispondente in Abissinia, giustamente mi dissero: “No, lei è un italiano e non farebbe delle corrispondenze obiettive”. Allora partii volontario. Trascorsi due anni di vita all’aria aperta, piena di avventura, mi convinsi di essere un personaggio di Kipling, non dovevo rispondere a nessuno. Mi sposai con una abissina di dodici anni di nome Fatima. Enzo non mi prendere per un Girolimoni, le abissine a quell’età sono già donne. Tutto regolare, la comprai dal padre per cinquecento lire, mi diede anche un cavallo e un fucile. Sono stato uno sporco colonialista conquistatore d’imperi, ero convinto di contribuire a fare qualcosa di importante, poi mi accorsi che non era vero.

Cosa fu per te il 25 luglio ‘43?

Un giorno di grande liberazione. Ero tra i molti italiani che non ne potevano più del regime. Nello stesso tempo fu un giorno di preoccupazione perché capii che non potevamo uscirne così, cioè che saremmo stati castigati. Un castigo che in parte meritavamo per la nostra estrema sopportazione, anch’io mi metto tra quelli che erano contro, ma non avevano fatto qualcosa per cambiare.

Nel ‘44 ti condannarono a morte, quale era l’accusa?

Io credevo di essere stato arrestato perché facevo parte di Italia libera il giornale clandestino di La Malfa, Tino, Gasparotto, invece ero accusato di aver partecipato al complotto del 25 luglio. Ero amico della principessa di Piemonte, Marie José, che mi invitava a Milano a Palazzo Reale, lì trovavo anche Gallarati Scotti e Stefano Iacini. Enzo, pensa che terzetto di dinamitardi! Facevamo i discorsi che facevano gli italiani: “Altezza Reale la monarchia deve rompere i ponti con il fascismo: se si vuol salvare, fate qualcosa”. Eravamo degli illusi, perché pensavamo che la principessa potesse intervenire sul consorte Umberto II il quale, a sua volta, potesse intervenire sul re. Questi discorsi furono tutti stenografati, evidentemente c’era un servizio di spionaggio. Quando il questore di Milano, l’8 settembre, fuggì, i tedeschi trovarono nel suo ufficio i rapporti e mi accusarono di tradimento e mi condannarono a morte. Mi imprigionarono in un carcere delle SS e per quattro mesi aspettai la fucilazione. Poi da Gallarate fui trasferito a Milano nel carcere di San Vittore, in prigione con me c’era Mike Bongiorno, aveva 16 anni, era stato arrestato perché cittadino americano; facendo il lavandaio si muoveva liberamente nel raggio, ogni tanto mi portava sigarette e qualcosa da mangiare. Aiutava un po’ tutti: fu un buon compagno di galera. Gli sono molto grato.

Indro, il giornalismo che cos’è per te?

È tutto, non è un mestiere, credo che lo farei anche gratis, mangiando non so cosa, è la mia passione, il mio amore, la mia dannazione, la mia fatica, il mio passatempo, è tutto.

Vorrei leggerti una frase di Gandhi: “Le opinioni che ho formulato, le conclusioni a cui sono giunto non sono definitive, posso cambiarle domani”. Quali sono i più grossi errori che hai fatto, i giudizi che vorresti rettificare?

Ti confesso che io non concordo più su nessuno dei giudizi che ho dato dieci o vent’anni fa. Enzo, penserai che io sia incoerente, ma le mie idee sono sempre al vaglio dell’esperienza che mi impone di rivederle continuamente. Esempio: nel 1946 ho votato per la monarchia ora sono un elettore del Partito repubblicano.

Nel 1948 hai votato per la Dc.

Lo feci molto, molto a malincuore perché ero dominato dalla paura del comunismo.

Hai mai votato socialista?

Una volta, nel 1966, quando ci fu l’unificazione tra Psi e Psdi.

A proposito di socialismo, hai scritto che la tua esperienza più traumatizzante fu quella del 1956, l’insurrezione ungherese. Tu eri a Bucarest, le tue corrispondenze rimarranno nella storia del giornalismo.

Allora ero pieno di pregiudizi. Conoscevo un po’ le Repubbliche orientali, ero convinto che quelle società fossero pietrificate, non conoscevo il travaglio di idee, ero convinto che il comunismo avesse spento tutto. Quando mi trovai di fronte alla rivolta d’Ungheria capii che nella coscienza, soprattutto degli studenti e degli operai, era nato qualcosa di più importante di ciò che esisteva nelle nostre società capitalistiche. Quei giovani si rivoltarono non in nome dell’anticomunismo, in nome del socialismo. I comunisti, senza volerlo, erano riusciti a compiere un miracolo: l’unione delle classi. Quel 26 ottobre 1956 gli operai seguirono il corteo degli studenti, che guidavano la rivolta, perché erano i loro figli. Io, l’anticomunista, queste cose le dovetti riconoscere perché era la verità a dettarle.

Fra i politici italiani chi ammiri o ami di più?

Sono due cose diverse. Ho molto ammirato, con un certo ritardo, De Gasperi. I miei amori invece sono due: il vecchio Pietro Nenni, sul piano umano non si può che amare Nenni, un grande galantuomo; e l’altro è La Malfa, uno strano politico che crede alle idee più che al potere. In altri paesi sarebbe abbastanza comune, in Italia è un fatto abnorme.

Pensi che la nostra stampa sia libera?

Che razza di sciocchezze sono queste. Naturalmente se voglio scrivere “viva il re” non posso scriverlo su La Voce Repubblicana, questo è evidente, devo scegliere il giornale congeniale alle mie idee e lì posso dire quello che voglio. Chi dice che la stampa in Italia non è libera è un volgare mentitore.

C’è chi dice che nel 2000, è una preoccupazione che né tu e né io abbiamo, non si sentirà
più l’odore dell’inchiostro nelle tipografie, ci saranno altri mezzi per comunicare con il lettore, il quotidiano sparirà. Tu cosa ne pensi?

È probabile che sparirà. I mezzi tecnici di oggi potranno anche superare il quotidiano, non lo so. Io rimango legato al quotidiano, se il quotidiano deve morire allora io desidero morire insieme al quotidiano.



Un dibattito tra galantuomini con delle ombre mica da ridere da parte del giornalista toscano,durante il periodo fascista e nel prendere come moglie una dodicenne etiope comprandola dal padre,il suo antifascismo penso che sia nato decisamente fuori tempo massimo.

Tolte queste ombre imbarazzanti un'intervista che si fa leggere.

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